L’ANTICO NATALE
Nella tradizione sarda il Natale è la festa più importante del mese di dicembre (mes’e idas) ma non è quella più importante dell’anno, tanto che è chiamato Paschixedda, cioè Pasqua piccola. E’ legata alla ricorrenza della Natività ed è quindi celebrata come festività religiosa, anche se alcune usanze sembrano ricordare gli antichi riti del fuoco legati al solstizio d’inverno. Ne è testimonianza, nei paesi sardi, l’uso di accendere nelle case il ceppo natalizio, detto “su trunchettu” o “su truncu ‘e chena” (tronco della cena), che arde nel caminetto e deve durare dalla sera del 24 fino alla mattina del 25 dicembre. La notte di Natale è sempre stata considerata un momento magico ed i suoi aspetti arcani si ritrovano in molte credenze comuni a vari paesi sardi. Per esempio si crede che chi nasce la notte di Natale preservi dalla sventura sette case del vicinato. Nel periodo natalizio le comunità sarde frequentavano le funzioni religiose, in particolare la novena, chiamata nel Campidano “Novena de su nenu” e nelle case si allestiva il presepe con statuine, realizzate a mano con argilla, e muschio vero, che si andava a prendere in campagna e doveva essere trasportato con attenzione perché non si sbriciolasse. Le tradizioni natalizie erano strettamente legate all’ambito familiare ed i momenti più importanti erano senz’altro la veglia natalizia, la messa di mezzanotte e la cena successiva.
LA VEGLIA
La notte di Natale la famiglia sarda al completo (solo i pastori stavano negli ovili a custodire il gregge) si riuniva in cucina intorno al focolare, dove ardeva un grande ceppo che ogni tanto veniva attizzato e sprigionava “is signoriccas” (le faville) che attiravano l’attenzione di grandi e piccini. In cucina si trascorreva il tempo, in attesa di recarsi alla messa di mezzanotte, in vari modi: si raccontavano storie e si scambiavano confidenze, si cercava di conoscere il futuro dal rumore delle foglie di ulivo gettate dentro il fuoco, si praticavano giochi caratteristici come quello detto “su barralliccu”. A spezzare l’intimità familiare era la visita del sacerdote che, subito dopo l’Ave Maria, andava di casa in casa a portare la benedizione e ricevere il pane per i poveri
LA MESSA
Al rintocco delle campane le famiglie uscivano dalle case e si recavano alla messa di mezzanotte, allietata da canti natalizi in lingua sarda in una chiesa profumata d’incenso ed illuminata da innumerevoli ceri accesi. Nelle strade la nascita di Gesù era salutata da spari di fucile.
LA CENA
Al ritorno dalla messa di mezzanotte nelle famiglie si consumava “sa xena”, un cenone che si protraeva a lungo e durava fino al mattino. Per questo motivo la notte di Natale era chiamata anche, in molte località “sa notte de is mattinas” (notte delle mattine), “sa notte ‘e xena” (la notte della cena) oppure “sa notte ‘e puddu” (la notte del gallo). Il cenone era ricco di cibi tradizionali tipici e ricercati. Tra questi ve ne erano alcuni come “sa codra” ( la coratella) e “sa trattalia” ( coratella ed interiora) fatte di agnello arrosto, che erano cibi a buon mercato, che persino le famiglie più povere potevano permettersi. Uno dei cibi più importanti era il porchetto che spesso veniva regalato già aperto e pulito con un ramo di mirto in bocca. Il porchetto veniva cotto nel caminetto. Si cucinava anche l’agnello con il tradizionale sistema “de su furria furria“ (gira gira). Alcune persone provvedevano a riempire, in continuazione, il bicchiere di chi arrostiva con del buon vino rosso, attinto dalla botte dell’ultima vendemmia. Il sistema di cottura allo spiedo richiedeva diverse ore, ma ciò non rappresentava un problema in quanto la cena aveva inizio molto tardi, cioè dopo la celebrazione della messa di mezzanotte. Si cominciava a mangiare salsiccia secca e prosciutto crudo di casa; si passava poi ai “culingionis” o “culurgionis” ( ravioli ripieni di ricotta), successivamente si mangiava l’agnello ed il porchetto arrosto, accompagnati da ravanelli, cardi, sedani. Si mangiavano anche “is tacculas” (tordi lessati con molto sale ed aromatizzati con foglie di mirto). Si beveva il buon vino novello. Il grande divertimento era poi passare alla frutta secca ed ai dolci (dal gattò agli amaretti, al “pani ‘e saba”, e ad altri, realizzati con mosto cotto e mandorle) e, come tocco finale per favorire la digestione, si brindava con il “fil’e ferru”, la tipica acquavite sarda.
I ragazzi della scuola media di Bellavista